Visita alla parte nacosta del Castello (Sant’Angelo) – tra prigioni, bagni decorati e gli incontri nonostante il Coronavirus.
Mattina, le dieci e mezza o giù di lì.
anche se tutti sappiamo che, come ieri,
verso le tre l’azzurro si trasformerà in grigio
e bisognerà fare in fretta per tornare a casa senza dovere usare l’ombrello previdentemente infilato in borsa.
Percorro le strade dove oggi è possibile fare foto senza doversi urtare con altri quindici esseri umani nello stesso metro quadro,
con la sensazione di essere in uno di quei
quando si era di meno, e le macchine che giravano erano quasi tutte utilitarie.
Anche oggi, sembra che quelli con i SUV siano rimasti a casa, o siano da qualche altra parte; e non fosse per il fatto che i
che incontro portano i giubbotti e soprattutto
che li assomiglia a Jena Plissken quando sta per incontrare il signore di New York, potrebbe quasi sembrare un giorno d’agosto.
Invece, è un giorno di Coronavirus, il settimo o l’ottavo.
Le scuole sono chiuse; così mentre aspetto che venga l’ora per cominciare la mia
ossia alle carceri di Castel Sant’Angelo e a quello che c’è intorno, conto fino a cinque coppie di nonni che mettono in fila i nipotini per portarli a visitare il Castello.
Che altro ci fai, coi ragazzini a casa, d’altronde?
Ripeto l’osservazione a mezza bocca e intercetto lo sguardo divertito della guida che presidia l’entrata del Castello.
Così intanto che aspetto scambio con lei più di due parole – rigorosamente mantenendo le distanze e ciascuna guardando dritta davanti a sé, per preservare l’altra dal rischio droplet.
Tanto che oggi, mentre scrivo,
quasi spiato, e la gentile compostezza con la quale l’ho vista gestire richieste di informazioni in tre lingue diverse, restando seria e professionale perfino di fronte alla
di notevoli dimensioni che, arrivata con veemenza di testa d’ariete all’entrata, guarda l’angelo in cima al Castello e le
Poi, la “mia” guida arriva.
Armata di tintinnanti chiavi con le quali apre un piccolo cancello in ferro battuto
sormontato da una lastra di marmo che rassicurante avverte:
Dunque, se sono storiche, le abitano solo il ricordo, e la loro minaccia oggi, è spuntata;
ma ben presto, proseguendo la visita oltre questo che è il
in realtà luogo di interrogatori violenti e sanguinosi,
la vista delle piccole celle dove i prigionieri venivano cacciati, confermerà la sensazione di freddo nelle ossa provata al vedere gli
pur disinnescati in una teca, ed al pensiero di quanto l’essere umano sappia essere inumano, anche con chi gli è simile.
Il caschetto giallo antinfortunistico sulla testa – ma pervicacemente dedito a cadermi tutte le volte che alzo lo sguardo per fare una foto – seguo la mia guida entrando nelle
ai tempi del loro uso spesso riempite di molte più persone di quante potessero contenere, attraversando il pertugio di ingresso così minuscolo che quasi ti devi accucciare per superarlo,
esattamente come erano costretti a fare anche i prigionieri…
“Era l’ultima umiliazione, l’inchino che si doveva fare al potere che ti aveva imprigionato”, mi avverte la guida.
E mentre osservo i
per un rito che forse serve a chi vi è rinchiuso per ricordarsi della propria esistenza, o resistenza, in vita
ascolto la sua voce aggiungere:
Non bisogna dimenticare, bisogna ri-pensare per non accettare la ripetizione di tutto ciò che toglie dignità ad un essere umano (così almeno la vedo io);
tuttavia, grata per avere potuto ricordare questo pezzo di (sperabilmente) passato, è con sollievo che lascio le carceri, seguendo la mia guida verso la stanza delle
ottantatre giare di terracotta tenute ferme con il cemento dal 1900 (scelta quanto meno discutibile, ma non reversibile) destinate appunto a contenere la scorta d’olio, d’oliva, o di pesce
(e mentre la guida mi dice questo immagino i soldati a lanciare dalle cime del castello pentolate di olio di pesce bollente sugli assalitori… ma non ho idea se sia mai avvenuto veramente).
Poi, lasciamo i sotterranei, e finalmente torniamo alla luce,
nel Cortile di Alessandro VI.
E da lì rientriamo, per andare ad ammirare il
chiamato
una piccola stanza fatta costruire dal papa Giulio II agli inizi del 1500, ma che fu appunto Clemente VII a volere decorata come la si vede ancora oggi.
Dotato di sia di acqua fredda sia di acqua calda, quest’ultima ottenuta con il sistema già usato dai Romani nelle terme, il “bagnetto” venne dunque minuziosamente abbellito da
specializzato in
Giovanni da Udine si impegnò a fondo e dipinse tutto ma proprio tutto il bagnetto, soffitto compreso: riempiendolo di
” forme vegetali miste a figurette umane, ad animali stravaganti, a scenette narrative“
come è caratteristico di questo tipo di decorazione, che imita quella dell’Impero Romano e che viene chiamata a grottesche perché venne scoperta in seguito ad una accidentale caduta nelle “grotte” che ricoprivano la Domus Aurea di Nerone.
Finisce, la visita.
Io mi dirigo al Cortile dell’Angelo
da dove salirò alla terrazza per un caffè …..
…non senza avere sentito l’ape-tafano dei Barberini richiamarmi al mio dovere di studiare bene l’interno del Castello …
Ma prima di salutare, ringraziandola, la guida che mi ha accompagnato, scambio ancora due parole con lei e alla fine – per questo non dico il suo nome – ebbene sì:
Sentendoci un pò come Jena Plissken quando sta per incontarre il signore di New York – perché lo sappiamo entrambe, che il coronavirus non è un signore con cui scherzare; e
come da copione.
Non è stato un gesto per disubbidire, e neppure una scivolata nell’abitudine.
Credo invece che entrambe abbiamo sentito la necessità di
a seguire le tracce dell’umanità (storia, leggende, battute e discorsi serii) di chi ci ha preceduto
con qualcosa di orgogliosamente umano, proprio ora che il coronavirus porta in giro un effetto collaterale altrettanto pericoloso, il senso dell’isolamento.
Perché, è vero: tutto si può fare da soli, e quasi tutto si può fare virtualmente, ormai.
Tutto, tranne restare umani.
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