Una passeggiata per Trastevere verso la Mostra Taccuini Romani con le stupende foto di Inge Morath, al Museo di Trastevere fino a febbraio 2020.
“Ti fidi dei tuoi occhi e non puoi fare a meno di mettere a nudo la tua anima”
Così diceva Inge Morath, la fotografa austriaca nata nel 1923 e morta nel 2002, la mostra delle cui fotografie (una parte!) sto andando a visitare al Museo di Roma in Trastevere.
Non lo so ancora, ma qualcosa del genere sta per succedere anche a me, in questo pomeriggio di dicembre in compagnia di una
per la tanta pioggia che è scesa e che ancora scenderà, stando alle previsioni, mentre mi dirigo verso la Piazza Sant’Egidio per visitare la mostra “Taccuini Romani”.
La fermata della Metro che potrei prendere per scendere a Lepanto e poi andare a piedi è chiusa da ormai un mese e non si sa quando riaprirà.
che da quando sono a Roma mi sento dire che no, Giovà, nun te lo consiglio proprio – anche perché una mia cara amica mi ha consigliato, invece, di usarlo, il bus, se voglio conoscere davvero Roma.
che secondo Google Maps è partito da quattro (cinque, sei, sette…) minuti dalla piazza che si trova a trecento metri da me,
e dunque è con ogni probabilità incappato in un gap spazio temporale ed ora sta scarrozzando ignari passeggeri facendo lo slalom tra buchi neri e quasar.
Poi arriva, il 46, ed è anche abbastanza vuoto.
Offro un biglietto alla ragazza che alla fermata mi ha rassicurato sul fatto che il 46 esiste e passa proprio da lì, lei mi dà un euro e 50, poi sparisce in fondo.
E io mi sento un pò persa, perché
Ma poi, passato poco tempo, appare lui,
e finalmente più o meno capisco a che punto sono.
Anche se poi l’autobus tira dritto, e devo aspettare la Chiesa Nuova per ri-orientarmi di nuovo.
Così penso che, se questi fossero i miei Taccuini Romani, dovrei annotare che
è che è piena zeppa di punti di riferimento, che basta alzare il naso, o guardarti un pò in giro, per avere un’idea anche se generica di dove ti trovi.
Penso anche che dovrei comprarmi una Moleskine (che farebbe anche tanto “scrittore”) per annotare le idee –
ma poi mi dico che dovrei fermarmi per scrivere e quindi no, non va bene…
…un registratore? bah, mettermi a parlare da sola peggio di quando cammini telefonando con le cuffie…
La realtà è che potere
potere andare a vedere cose che mi interessano,
è qualcosa che mi piace così tanto, che ho paura di svegliarmi
e sono convinta che se mi fermassi a prendere appunti in qualche modo renderei il risveglio più probabile, e più vicino.
Niente appunti, dunque: “fidati dei tuoi occhi“, dice Inge.
Forte di tale eroica decisione,
“deve essere questa, o la prossima“, mi dice il conducente che ovviamente non ha alcun bisogno di sapere i nomi delle fermate per conoscere la strada e come si guida.
Liberata dall’eventualità di dovere ascoltare la voce dolcemente severa di Google Maps suggerirmi “svolta leggermente a sud est“, in autonomia mi dirigo verso dove so che troverò il fiume.
Arrivo a piazza del Teatro di Pompeo, e annoto – senza taccuini e dunque mentalmente! – che devo andare a rivedere la trasmissione di Andrea Carandini dedicata proprio a questo Teatro che non c’è più – e fu il primo ad essere costruito in muratura, a Roma, tra il 61 e il 55 prima di Cristo.
Quel Campo dei Fiori!
Il mercatino sta per chiudere, ma è ancora vivace, e solo i banchi più esterni stanno cominciando a svuotarsi.
Fotografo, ovviamente,
che guarda pensieroso il luogo dove lasciò la vita, tra le fiamme cui fu consegnato per avere sostenuto, tra l’altro, che la Terra gira su se stessa.
Abbasso lo sguardo, perché proprio non capisco, neppure alla luce della giustificazione della crudeltà dei tempi andati (?)
e il freddo del pensiero sull’intolleranza per ciò che non rientra nei ranghi del “si è sempre fatto, o detto, così” mi esce miracolosamente dalle ossa solo guardando tutta la colorata vita che insiste a proseguire anche qui, nonostante tutto.
e abbandono la precedente eroica decisione (un’altra!) di saltare il pranzo, per chiedere una spremuta.
Professionali, i due ragazzi agiscono all’unisono, e in tre minuti la mia spremuta è lì… peccato per il bicchiere di plastica (ma sono io che avrei dovuto portare con me una bottiglia, e invece me ne dimentico sempre)
e grazie a loro per avere accettato entusiasticamente di farsi fotografare mentre sono al lavoro!
Poi, superata qualche difficoltà di orientamento, eccomi davanti alla
dal colore ocra scuro, e della quale mi ricordo che qualcuno mi ha detto che si tratta di una “parrocchia personale”: dedicata a coloro, in tutta Roma, che seguono la
E finalmente al
In questa mia strada verso i Taccuini Romani della mostra, ecco un altro amico di cui ho letto molto, al punto che quando lo vedo mi sfugge un “ciao!”
… che spero venga inteso da chi aspetta con me il verde al semaforo (o meglio, che non ci siano auto in arrivo sulla strada da attarversare) come l’inizio di una conversazione al cellulare.
Attraversato Sisto, so che ci siamo, ormai.
Ecco infatti
(chiara, mi suona all’orecchio la poesia che mia madre mi diceva a memoria: c’è un’ape che se posa su un bocciolo di rosa…)
… resistendo stoicamente al profumo di cibarie ingrassantissime di cui mi abbufferei davvero volentieri
Ed eccomi alla
La mostra Taccuini Romani inizia con le fotografie di
“prima fotoreporter donna entrata nella storica agenzia Magnum Photos“.
Il primo cartellone la descrive così:
“E’ stata, prima di tutto, una viaggiatrice. Suo marito Arthur Miller ha così descritto questa sua inclinazione: Non appena vede una valigia, Inge comincia a prepararla”.
Meravigliosa.
E le foto sono stupende: parole fissate dalle immagini senza dover subire il carcere dell’esser dette.
In una stanza viene proiettato il filmato di una lunga intervista alla fotografa.
Ascolto la sua voce che parla in tedesco – i sottotitoli sono in inglese – e la osservo mandare – da ogni gesto, sguardo, inclinazione della voce – lampi tranquilli di intelligenza vera (per me): quella che ti permette di amare la vita e permettere alla vita di amarti.
Il resto della mostra è un pò deludente: almeno a me, e certo per personale insufficiente conoscenza, i quadretti delle piccole foto spesso polaroid danno oggettivamente poca commozione.
Salvo quando incontro i
il touch screen con i suoi acquerelli e le ricostruzioni di scene di vita d’epoca con i costumi romani del 1800.
nonché la copia della
(in realtà probabilmente un magistrato dell’età tardo romana), compagna in altri tempi delle altre statue parlanti come Pasquino, Marforio e così via,
che svetta davanti la finestra sulla piazza.
Fotografo la piazza da quella finestra perché, anche se non ne so il motivo e se c’è non è certo “scientifico”, mi dà l’idea che se Roesler Franz fosse qui oggi, forse ne dipingerebbe un bel quadro.
Chiudo i miei Taccuini Romani mentali, e mi dirigo di nuovo verso Piazza Trilussa, alla caccia del 46 per il ritorno.
Non senza fermarmi a comprare una piastrellina nel bellissimo negozio di
piccolo, coloratissimo e abitato in maniera davvero simpatica da colui che, suppongo, è lo stesso Omar.
Poi, riattraversato il mio amico Sisto e salutato il Fiume
mi ritrovo a Campo dei Fiori, e mi fermo per un cappuccino in piazza, alla
simpatica, accogliente e piena di un’atmosfera davvero gentile – che ho appena imparato chiamarsi
Direi che per oggi, materiale per i miei Taccuini Romani ne ho trovato abbastanza.
Mi avvio verso la fermata del 46, e penso che
Ha ragione: per me, lo è.
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3 comments so far
LinaPosted on11:54 am - Dic 5, 2019
Il tuo racconto mi è piaciuto tanto,pensato e scritto con affetto, lo voglio rileggere perché “fa compagnia” e mi sembrava di essere là con te, tu sei una persona piena di interesse per la vita e per le persone.grazie vorrei leggere ancora di Roma vista da te con la tua curiosità e leggera ironia. BRAVA!
giovannavernarecciPosted on8:12 pm - Dic 5, 2019
:-)!
giovannavernarecciPosted on8:13 pm - Dic 5, 2019
Grazie! :D!